Detenuta in un carcere turco: la storia di Annalisa De Gregorio

Detenuta in un carcere turco trentuno anni fa, Annalisa De Gregorio vive una esperienza terribile, che la segnerà per tutta la vita.

È il 1992 e Annalisa ha 28 anni. Si trova in viaggio in Turchia con un’amica, ma il viaggio prende tutt’altra piega: viene accusata di omicidio colposo in un incidente in cui è morto l’autista turco di un minibus. Dal 20 agosto fino al 6 ottobre (data della prima udienza del processo), per un totale di quarantotto giorni, è detenuta nel piccolo penitenziario misto di Denizli.

L’incidente era avvenuto la sera del 19 agosto: le due amiche stavano rientrando a Kusadasi a bordo di una Fiat 131 che avevano noleggiato. Due pneumatici scoppiano durante un sorpasso, spezzando la vita dell’autista di un pulmino coinvolto nell’incidente, oltre a numerosi feriti. In Turchia, però, l’omicidio colposo è punibile con il carcere, mentre in altri posti addirittura è in vigore la pena capitale per tali reati. A Denizli, zona dell’incidente, no.

Annalisa viene però arrestata perché, oltre all’incidente, viene trovata a bordo di una vettura non idonea al noleggio, a sua insaputa.

Questo libro è il racconto dei suoi quarantotto giorni trascorsi in un carcere turco, tra paura ed ansia. Con una prefazione di Anna Maria Ghedina.

Di seguito, l’intervista all’autrice:

Era il 1992. Come mai solo adesso ha deciso di raccontare e pubblicare la sua storia? Cosa l’ha spinta?
“Sì, son passati 31 anni da allora, e all’epoca c’erano poche case editrici, nessuno era interessato. Poi ero provata, stanca di essere intervistata, infatti per due anni sono stata seguita da una psicologa.

Ed è stata la tenacia di una mia amica a far sì che riprendessi dal cassetto il mio libro. Ogni anno Facebook mi ricordava l’anniversario dell’incidente, quando pubblicavo le foto. Giuliana Cellentani, la mia amica, ogni volta mi incoraggiava, perché era una storia incredibile. Così ho seguito il suo consiglio.”

Quarantotto giorni tra uomini e donne accusati di reati gravissimi. Quali sono stati gli episodi avvenuti in carcere che permangono nella sua memoria? C’è qualcuno che tuttora ricorda?
“Il carcere di Denizli era un carcere misto, c’erano due padiglioni, uno per donne e bambini e l’altro per gli uomini. Molti episodi non potrò mai dimenticare, ma il più brutto in assoluto è stato quando mi portarono in ospedale.

Mi fecero salire su un pulmino che andava in moto a spinta, con me c’erano altri detenuti maschi, loro avevano le manette ai polsi, io no per fortuna. Arrivati in ospedale, un medico voleva che mi spogliassi davanti a due gendarmi, ma non solo, voleva che mi stendessi su un lettino sporco di sangue.

Nessuno parlava inglese o francese, ma parlando in napoletano mi capirono benissimo. Diventai una furia, così il medico prese dall’armadietto delle medicine uno scatolino di pillole, dove c’era scritto “stress”. Nel momento in cui me le porse in mano, senza pensarci due volte gliele buttai in faccia. Così il medico fece cenno di portarmi via, gridando: “Crazy, crazy!”

Ma i pazzi erano loro, perché non si danno antidepressivi ad una ragazza febbricitante. Tornati in carcere il medico di guardia fece lo stesso ed io rifeci la stessa cosa. Tornata in cella mi diedero un tè e mi addormentai.”

Come si svolgevano le sue giornate? Come impiegava il suo tempo?
“Il tempo lo trascorrevo a scrivere, ho sempre avuto un diario e un quaderno di poesie, mi è sempre piaciuto scrivere, da bambina. Sul diario scrivevo tutto quello che provavo e che accadeva ogni giorno. Poi fumavo come una turca, due pacchetti di Marlboro al giorno. Quando mio padre ottenne il permesso di ascoltare musica, mi portò un walkman con delle cassette audio, così avrei ascoltato la musica, che è una delle mie passioni.”

C’è qualcosa o qualcuno di quel periodo che ricorda invece in modo non del tutto negativo?
“La cosa positiva era che socializzai molto con le guardie e le detenute. Una di queste detenute, Meral, fortunatamente, parlava inglese, così poteva tradurre tutto quello che le guardie mi chiedevano.

Le guardie erano tutte molto gentili con me, ero la loro mascotte, non mi facevano mai fare le pulizie e mi regalavano libri e giornali.”

Che ruolo ha giocato suo padre nella sua scarcerazione?
“Il ruolo di mio padre è stato fondamentale. Aveva conosciuto una signora di Caserta che viveva proprio a Denizli ed era sposata con un turco.

Tramite questa persona, che parlava anche il turco, mio padre poteva andare nei vari uffici, parlare con gli avvocati, e, cosa molto importante, andare in ospedale a ritirare i referti delle persone ricoverate, perché il Giudice non poteva quantificare la condanna se non sapeva delle condizioni delle persone coinvolte nel tragico incidente.

Quindi con mio padre sul posto si sbloccò un po’ la situazione. Anche mia madre da Napoli si muoveva come poteva, tra giornalisti e istituzioni.”

Come ha vissuto il ritorno in Italia? Quali emozioni ha provato?
“Il mio ritorno in Italia è stato bello, ho potuto riabbracciare mia madre, i miei fratelli, ma ero molto provata, non mi piaceva stare tra la folla, avevo crisi di panico, la notte non dormivo, pensavo sempre all’autista morto, avevo la sua immagine impressa nella mente, non la potrò dimenticare mai.

La sera stessa del mio arrivo sono salita in auto ed ho guidato… se non l’avessi fatto subito non avrei guidato mai più, idem con la moto.

La cosa ancora più negativa era aver perso il lavoro, perché il mio datore di lavoro aveva chiuso la Scuola Guida, aveva ricevuto un pignoramento di tutti i beni per una vertenza di un suo impiegato.

Ci son voluti più di due anni di sedute da una psicologa, poi ho quasi rimosso tutto, fino a quest’estate, quando ricopiavo il testo sul pc, ho avuto crisi di panico notevoli, ma tutto passa per fortuna.”

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